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Perchè siam donne: Sarah, una donna artista e la sua dichiarazione

Si chiama Beauty Revealed (“Bellezza Rivelata”), ed è un “auto-ritratto “del 1828 dell’artista americana Sarah Goodridge 

Questa miniatura, realizzata con acquerello su avorio, mostra i seni nudi dell’artista, circondati da un telo bianco e misura solo 6,7 x 8 centimetri

Sara aveva 40 anni quando completò la miniatura.

Sara donò il ritratto al senatore Daniel Webster, che era un soggetto frequente dei suoi dipinti e forse un suo amante, poco tempo dopo la morte di sua moglie. Si pensa che l’intento dell’artista fosse quello di convincere il senatore a sposare lei.

Purtroppo, Webster sposò un’altra, ma la sua famiglia conservò la miniatura dei seni di Sarah Goodridge per oltre 50 anni e nel 2006 venne donata al Metropolitan Museum of Art.
Tra milioni di opere ospitate nel Museo di New York, si può ammirare questo piccolo quadro dipinto in acquerello su un pezzo di avorio, grande in tutto meno di un terzo della foto digitale.

L’immagine non viene né dalla Gran Bretagna, dove la pittura in miniatura era molto popolare nel XVIII secolo né dalla Francia la patria della sensualità.

La miniatura fu dipinta nella Boston puritana del 1828……..

Sarah Goodridge era una prolifica artista di Boston, specializzata in ritratti e miniature. Sesta figlia di Ebenezer Goodridge e Beulah Childs mostrò già in tenera età una certa predisposizione al disegno.

Essendo all’epoca limitate le opportunità di istruzione per le donne, fu prevalentemente un’artista autodidatta. Frequentò la scuola del distretto locale e realizzò i suoi primi schizzi sulla gente attorno a lei su corteccia di betulla, non potendosi permettere l’acquisto di carta.

Ella ebbe un rapporto di lunga data con Daniel Webster, politico che dal 1827 fu senatore del Massachusetts. Negli anni, lei lo ritrasse almeno una dozzina di volte, raggiungendolo a Washington, D.C.

Da Boston Webster le mandò più di quaranta lettere tra il 1827 e il 1851, e si rivolse a lei con sempre maggiore affetto. Tuttavia, i due non si sposarono mai.

Viste le dimensioni dell’opera, si può supporre che fosse destinata soltanto agli occhi di Webster.

Nel 1820 Sarah andò a vivere con sua sorella Elizabeth a Boston ed iniziò a ricevere lezioni e a dipingere ritratti in miniatura di eccezionale qualità. I suoi lavori continuarono a migliorare e guadagnò dalle opere commissionate quel che bastava per sostenere se stessa e la sua famiglia per diversi decenni. .

Si ritirò dall’attività artistica nel 1851.

Sara ha voluto mettere in chiaro all’uomo che amava chi fosse: una donna artista.

Una donna artista che voleva essere e che non si è mai lasciata condizionare da quello degli altri, o la società volevano imporre su ciò che è bene per una donna artista fare e creare.

Quello che ha voluto rivelare in modo provocatorio al suo amante e’ il potere della sua arte che non essendo disgiunta dal suo essere è anche il suo potere di donna, in un periodo in cui gli artisti maschi dominavano il campo.

Sara ha saputo vivere della sua arte.

Sarah Goodridge – Wikipedia

Sarah Goodridge, l’artista che realizzò un ritratto dei propri seni e lo spedì a un senatore (fattistrani.it)

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Perchè siam donne: Quando le donne non potevano indossare i pantaloni.

La moda dei pantaloni per tutti è considerata la rivoluzione degli ultimi anni non dobbiamo dimenticarci dei secoli precedenti, e della lunghissima battaglia che la popolazione femminile ha combattuto per non essere relegata all’interno di quelli che venivano considerati gli unici abiti che una donna potesse indossare.

Negli anni ‘50 la Chiesa combatteva le donne che portavano le “braghe.

Con una sola eccezione: “Che la donna si dedichi agli sport dell’alpinismo e della neve non si può condannare ed è …sopportabile che durante l’esercizio di questi sport indossi i pantaloni”.

Il settimanale diocesano L’Amico del Popolo del 14 marzo 1953 manifestò grande preoccupazione per la supposta confusione tra i sessi che avrebbe creato una donna con tanto di braghe. Il foglio diocesano andò giù duro: “Non è affatto sopportabile imbattersi ad ogni passo nei nostri paesi in ragazze sfacciatelle le quali con la più grande disinvoltura ostentano i loro pantaloni. Lo spettacolo che danno è semplicemente indecoroso, antiestetico, immorale”.

A difesa delle sue tesi L’Amico citò un passo del Deuteronomio, l’opinione di un Padre della Chiesa (S. Ambrogio) e il pensiero di due autori pagani come Erodoto e Seneca. A suo dire le donne con i pantaloni avrebbero creato “disordine”; tuttavia, non potendosela prendere con un capo d’abbigliamento casto, che copre le gambe, il giornale prese di mira le donne sostenitrici delle braghe: “di solito in altri periodi di tempo sono quelle che vanno mezze nude (per amore della moda!), quelle che sopportano anche i dolori reumatici causati dal freddo (per amore della moda!) pur di non coprirsi, quelle che non porterebbero calze grosse che sfigurano le game (per amore della moda!)”.

Nel dopoguerra l’emancipazione femminile muoveva i primi passi, abbracciando nuovi stili e prodotti e optando per vari tipi d i pantaloni a vita alta: jeans con risvolto, pantaloni al polpaccio oppure a sigaretta.

Chi portava le braghe (gli uomini) di norma comandava e dunque una donna con “le braghesse” costituiva una potenziale minaccia ad equilibri consolidati.

Infatti, fino agli anni settanta una donna italiana era guardata con riprovazione, se non addirittura considerata immorale, quando indossava i pantaloni!

Ma in Italia si sa, la donna è sempre stata vista solamente come madre e moglie, eppure anche in ambienti come in Inghilterra e in Francia, stilisticamente parlando, l’uso dei calzoni da parte della popolazione femminile fu una vera e propria conquista avvenuta di recente

I più antichi antenati dei nostri pantaloni risalgono ad un’invenzione di quasi duemila anni fa dei nomadi delle steppe euroasiatiche, che, vivendo gran parte della loro vita a cavallo, sentirono la necessità di trovare un capo d’abbigliamento comodo e resistente. Inventarono così dei robusti gambali, indossati sia da uomini che da donne proprio per sopperire a questa esigenza.
L’invenzione prese piede a poco a poco tant’è che anche il popolo romano decise di adottarla escludendone però l’uso alle fanciulle e alle matrone.

Fu così che via via nel tempo, i calzoni maschili cambiarono forma, materiale e lunghezza ma rimasero del tutto inaccessibili alle donne, che rimasero inesorabilmente legate alla tradizione delle lunghe gonne.
Nota per essere l’eroina nazionale francese, non tutti sanno che Giovanna D’Arco fu una precorritrice dei tempi e, per tutta la sua vita, si ostinò a portare fieramente abiti da uomo. Il suo portare le braghe e l’armatura, nonché il mantenere i capelli molto corti, furono alcuni dei motivi per cui il suo celeberrimo processo finì con la pena di morte.

Usate come manifesto di indipendenza e rivendicazione dei pari diritti, le braghe vennero indossate dalle donne già dai primi anni dell’Ottocento come atto di denuncia e provocazione.

Fu così che negli anni, la società iniziò a tollerare finalmente che la donna utilizzasse abiti considerati maschili nel caso in cui svolgesse un lavoro manuale come ad esempio gli estenuanti lavori d’estrazione, mansioni dure (ma redditizie) impossibili da svolgere in gonnella.

Furono i primi movimenti per l’emancipazione della donna a sollevare il problema della scomodità dei costumi tradizionali femminili, ma solo con le guerre mondiali e il conseguente impoverimento della società e la rivoluzione nel ruolo della donna che si inizio ad accettare l’idea di pantaloni femminili.


Alla fine degli anni settanta, con il grandissimo successo dei jeans e il movimento hippie, i pantaloni diventarono un capo per entrambi i sessi accettato in tutt’Europa, persino nella più diffidente Italia.

I pantaloni da donna: breve storia di una lunga battaglia – Lo Sbuffo – Cerca (bing.com)

Pantaloni Bloomers: come le suffragette ne fecero un simbolo della lotto per i diritti delle donne

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Perchè siam donne: La sacerdotessa della luna di Tessaglia

Dicono, che una certa Aglaonice, figlia di Egamone Tessaliense, stava osservando sul Monte Ossa la Luna, dalla quale tirava poscia i suoi pronostici per le cose avvenire, e che essendo veduta da varie femmine ignoranti, fu da esse accusata, come se tentasse di far cadere dal Cielo la Luna, e perciò venne precipitata dal suddetto monte.»

Considerata la prima astronoma greca, forse la prima di cui abbiamo notizia. “La sacerdotessa della Luna” visse nel IV secolo a. C. Visse a Lamia, paese poi inglobato in Tessaglia.

Era figlia di Egetore, un padre che le permise di studiare astronomia in Mesopotamia, regione storica dell’antico Oriente, dove si erano formate molte sacerdotesse. Aveva notevoli conoscenze astronomiche ed era in grado di predire le eclissi lunari.

Di lei dicevano che praticasse la magia, che fosse capace di far scomparire l’astro notturno, in realtà era molto brava nel predire le eclissi lunari.

Plutarco scrisse che era perfettamente familiarizzata con i periodi della luna piena, e che, sapendo il momento preciso in cui si sarebbe prodotta l’eclisse, avrebbe fatto credere a tutto il mondo che era lei stessa ad “abbassare la luna” fino alla terra.

Girava anche la voce che la “tirasse giù” per ritrovare l’amante Endimione.

Ne nacque un proverbio greco “Voi attraete la Luna in vostro svantaggio“, forse perché ne venne riconosciuta la frode e ne venne derisa per la pretesa di essere chiamata maga; o perché forse assumeva comportamenti non compatibili al tempo con l’ideologia femminile, supponendo che venisse castigata dagli dei per la sua temerarietà e fatta soffrire quindi di molte sventure.

Giacomo Leopardi nel “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, nel capitolo IV intitolato “Della magia” accenna a Aglaonice: «Le Tessale han fama di staccar la luna dal cielo; ma ciò fu fatto credere alle femmine dall’astuzia di Aglaonice figlia di Egetore, donna, come dicono, perita in astrologia, la quale ogni volta che la luna pativa ecclissi faceva intendere che ella con arte magica l’avea levata dal suo luogo.»

Nella stessa linea, Orazio, Virgilio e Platone che la definivano “capace di staccare la luna dal cielo”.

https://it.wikipedia.org/wiki/Aglaonice

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La buona notizia del venerdì: Con ago, filo, ferri ed uncinetto si può fare la differenza.

Sono quasi quattromila le coperte, che misurano un metro per un metro, tutte realizzate a mano che, domenica 12 marzo, hanno ricoperto Piazza Grande di Modena formando un grande tappeto multicolore contro la violenza sulle donne.in un gesto simbolico e, allo stesso tempo, molto concreto.

Una piazza colorata da migliaia di coperte colorate realizzate a mano da tanti volontari : dalla casalinga che da Trapani spedisce un quadrato, a tutti i gruppi, associazioni , scuole, privati cittadini del territorio e in tutta Italia

Dalle prime ore di domenica è cominciata la catena umana per allestire piazza Grande con le coperte. I quadrati, circa 16 mila, ognuno dei quali misura 50 centimetri per lato, sono stati uniti a quattro a quattro in coperte da un metro per un metro e cuciti dalle volontarie con un filo rosso, simbolo del no alla violenza così da formare le migliaia di coperte necessarie a ricoprire la piazza. I quadrati sono stati firmati per attestare il proprio “No alla violenza sulle donne”.

L’impresa ha permesso di raccogliere 83 mila 950 euro a favore della Casa delle donne contro la violenza di Modena che saranno destinati a sostenere, in particolare, progetti per aiutare le vittime della violenza a raggiungere un’autonomia economica, qualificarsi per ricercare un lavoro e, se necessario, usufruire di assistenza legale gratuita.

“Felici per la grandissima partecipazione dei modenesi”, le organizzatrici dell’impresa, realizzata con la collaborazione del Comune di Modena e il sostegno di Conad Nord Ovest, Fondazione Conad e Bper Banca, hanno deciso di proseguire ancora per qualche settimana provando a realizzare entro la fine di marzo anche le 97 coperte che mancano (per un totale di 388 quadrati realizzati ai ferri o all’uncinetto) per arrivare alla cifra tonda di quattromila.

Le nuove coperte saranno in vendita nello Spazio Viva Vittoria in via San Carlo 26.

L’impresa delle coperte contro la violenza è nata dalla collaborazione del gruppo Fili di vita, composto da donne modenesi, con l’associazione di volontariato bresciana Viva Vittoria che, fin dal 2015, ha promosso e realizzato progetti analoghi in varie città.

L’iniziativa è stata realizzata da donne, soprattutto, ma anche da uomini e da studenti e studentesse, non solo modenesi.

Fonte:

coperte inpiazza a modenatoday – Cerca (bing.com)

Oltre 1700 le coperte vendute in piazza Duomo – parmareport

Donne, una maxi coperta in piazza a Brescia: social patchwork contro la violenza – la Repubblica

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Perchè siam donne : Solo nel 1974 le donne hanno accesso alle banche!

Quando il 14 luglio 1978 la Women’s Bank aprì i battenti nell’Equitable Building, la storia bancaria di Denver cambiò per sempre e prese vita un’idea sviluppata da Carol Green e Bonnie Andrikopolous nel novembre 1975.

Carol Green, Judi Wagner, LaRae Orullian, Gail Schoettler, Wendy Davis, Joy Burns, Beverly Martinez e Edna Mosely. Sono state loro a fondare la banca.

Sebbene l’Equal Credit Opportunity Act sia stato approvato nel 1974, la maggior parte delle donne non ne conosceva l’esistenza. I banchieri dicevano spesso alle donne che dovevano essere i padri, i mariti, i fratelli, i nonni, gli zii o qualche parente maschio a cofirmare per i loro prestiti. Ottenere un credito proprio era difficile.

Prima del 1974, le donne utilizzavano certamente i servizi bancari. Infatti, dopo la ratifica del 19° emendamento nel 1920, le banche iniziarono a fare pubblicità più diretta alle donne.

Nonostante l’aumento della clientela, le istituzioni finanziarie rimasero largamente discriminatorie quando si trattava di concedere credito alle donne e alle minoranze. L’industria stessa dei servizi finanziari era guidata da uomini (il più delle volte bianchi), mentre le donne lavoravano come receptionist, segretarie e cassiere.

Carol Green and Bonnie Andrikopolous  formarono la Women’s Association il 16 novembre 1975, con l’obiettivo di ottenere una carta bancaria nazionale.

In un opuscolo del 1976 circa, l’associazione spiega la necessità di una banca che si rivolga alle donne:
È risaputo che le donne sono essenzialmente alle “radici della finanza”…. dalle considerazioni finanziarie quotidiane di un bilancio familiare alle questioni finanziarie riguardanti tutte le forme e le dimensioni delle imprese. …Anche se la nostra prima considerazione riguarderà il ruolo attivo delle donne a Denver, stiamo creando una banca che sarà al servizio di tutti.

Nel luglio del 1977, grazie al duro lavoro di molti, la Women’s Bank ricevette l’approvazione preliminare per una carta nazionale dal Comptroller of the Currency.

Anche Mary Gindhart Herbert Roebling, banchiera di fama nazionale, ha contribuito in modo determinante a ottenere la carta. Utilizzando i suoi contatti presso la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), la Roebling fece controllare la salute dei sistemi proposti dalla banca.
Il 12 luglio 1978, la Women’s Bank divenne ufficialmente la seconda banca femminile a livello nazionale (la prima fu quella di Washington).

Due giorni dopo, la Women’s Bank aprì i battenti alle 8.30 del mattino, quando il presidente B. LaRae Orullian tagliò il nastro dell’ingresso.
I depositi del primo giorno superarono il milione di dollari.

Nel gennaio 1994, The Women’s Bank e la sua holding, Equitable Bankshares of Colorado, sono state vendute a un investitore per 17,5 milioni di dollari.

Nell’ottobre 2018, la BOK Financial, con sede a Tulsa, ha acquistato la Colorado Business Bank.

Fonte: Una banca per tutti: Remembering The Women’s Bank | Denver Public Library History (denverlibrary.

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Perchè siam donne: Alfonsina, pioniera del ciclismo femminile

«Sono una donna ,è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa una donna che corre in bicicletta.

Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene».

Nel nome, c’era già il suo destino.

Alfonsina è stata la pioniera del ciclismo femminile italiano, la prima concorrente donna del Giro d’Italia. In pieno regime fascista, su due ruote ha percorso una lunga strada contro i pregiudizi di quei tempi. Contro le convenzioni sociali che identificavano la figura femminile solo come moglie e madre. Alfonsina è stata tra quelle donne «che hanno osato per impeto, per ragione o per amore». E fatto la differenza.

Alfonsina Morini, questo il nome da nubile, nacque nel 1891 a Castelfranco Emilia da una famiglia di braccianti agricoli. Sentì presto accendersi la passione per la bicicletta, era ancora una bambina: suo padre ne aveva una, vecchia e malridotta, ma lei se ne innamorò perdutamente.

Cominciò facendo la vedette delle competizioni sportive della zona, poi arrivarono le prime gare a Reggio Emilia e dintorni. Ma poiché c’era l’alto muro del maschilismo sportivo (e non solo), pur di partecipare Alfonsina dovette spacciarsi per un uomo. Era già chiaro, niente l’avrebbe fermata. E si guadagnò così il soprannome di “diavolo in gonnella”.

Ovviamente, i genitori e tutti gli altri parenti non approvavano le sue velleità. Doveva trovare marito come tutte le altre, Alfonsina. E magari diventare una brava sarta. Nel 1905, a soli 14 anni, sposò il meccanico e cesellatore Luigi Strada.

La coppia Alfonsina Strada e Luigi Strada sorprese tutti, perché quell’uomo si rivelò di grande intelligenza e mentalità aperta. Nel giorno delle nozze, regalò ad Alfonsina una bici da corsa. L’anno successivo i due si trasferirono a Milano e lui cominciò addirittura a farle da allenatore. Alfonsina Morini Strada prese parte a diverse competizioni, inanellando successi.

Nel 1924 fu ammessa al Giro d’Italia. Sostenne le prime tappe con risultati più che validi, soprattutto considerando che tutti gli altri atleti erano uomini. Durante l’ottava tappa (L’Aquila-Perugia), però, la pioggia e il vento la fecero cadere rovinosamente. Eppure non si arrese. Con l’aiuto di una donna, aggiustò il manubrio della sua bicicletta usando un manico di scopa e ripartì. Arrivò a Perugia per ultima e fuori tempo massimo, esausta e ferita. Ma arrivò. Conquistando tutti gli spettatori, che la accolsero con ammirazione e calore. Tuttavia, anche a causa di chi disapprovava l’emancipazione femminile, venne esclusa dalla gara. Le permisero comunque di prender parte alle seguenti tappe, senza conteggiarne i tempi. Su 90 atleti partiti da Milano, solo 30 portarono a termine l’intero percorso. Tra questi, anche lei.

Nonostante ciò, non le fu mai più permesso di iscriversi al Giro. E sapete cosa fece? Più di una volta lo seguì per conto proprio, naturalmente a bordo della sua bici. Ormai celebre, prese invece parte a molte altre competizioni e si esibì anche nei circhi, pedalando sui rulli. Nel 1938 conquistò il record dell’ora femminile a Longchamp, in Francia, fissandolo a 35,28 chilometri.

Alla fine degli anni Quaranta, Alfonsina Strada rimase vedova. Il 9 dicembre 1950 si risposò a Milano con Carlo Messori, a sua volta ex ciclista e ormai quasi settantenne. Insieme aprirono un negozio di biciclette con officina annessa, in via Varesina 80. E lei, manco a dirlo, andava tutti i giorni al lavoro su due ruote.

Nel 1957, però, anche Messori morì. Alfonsina mandò avanti l’attività da sola. Però cominciava ad esser stanca, anche di pedalare sempre.

Acquistò quindi una Moto Guzzi 500 di colore rosso, qualcuno disse che fu costretta a vendere parte delle sue medaglie e dei suoi trofei per mettere insieme il denaro necessario. Forse è la verità, forse no. Ma di certo, il tramonto della sua vita non fu luminoso.

Il 13 settembre 1959 si spense all’improvviso. La causa della morte di Alfonsina Strada? Infarto. Che la colpì mentre provava a far partire la sua moto ingolfata, spingendo con forza sulla leva di avviamento

Alfonsina Strada è un esempio, una donna che ha aperto strade a tutte le altre donne. Una guerriera. La descrivevano anche come una persona bizzarra, fuori dal comune.

Di certo, è stata un’anticonformista. Un’anima libera, dotata di una forza incredibile. Durante la sua vita ha raggiunto traguardi allora inimmaginabili, ma anche affrontato prove molto dure.

Fonte:

Alfonsina Strada, pioniera del ciclismo femminile italiano | Elle

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Perchè siam donne: Cosa c’entra il surrealismo, Dalì e Coco, con la più geniale e anticonformista e visionaria stilista del primo novecento: Elsa Schiaparelli.

Un abito non è solo stoffa: un abito è un pensiero”.

Così affermava Elsa Schiaparelli.

Elsa Schiaparelli, insieme a Coco Chanel, viene considerata una delle più influenti figure della moda nel periodo tra le due guerre. Dagli abiti ispirati al surrealismo alla creazione del rosa shocking

Elsa Luisa Maria Schiaparelli nasce a Roma il 10 settembre 1890 in una famiglia d’intellettuali e studiosi. Lei stessa apprende la filosofia ma, quando decide di dedicarsi alla poesia, i genitori ritengono tale inclinazione inopportuna, e la mandano in convento.

Nel 1913 parte per Londra: qui conosce il teosofo William de Wendt de Kerlor che sposa e da cui ha una figlia Maria Luisa Yvonne Radha detta Gogo, ma, nel 1922, chiede il divorzio.

Elsa  nel 1930 viene in contatto con gli artisti dell’avanguardia dadaista, da Marcel Duchamp al fotografo Man Ray, fino a Francis Picabia: amica della moglie di quest’ultimo, con lei fa ritorno in Europa, più esattamente a Parigi.

E’ proprio nel suo appartamento parigino realizza i pullover neri con dei motivi trompe-l’oeil a contrasto e inventa, così, la lavorazione a doppio nodo, o bow-knot, per concretizzare i decori sulle maglie che ingannano l’occhio. Rivoluziona così la concezione del maglione come indumento da lavoro , pratico senza forma.

E nel 1928 apre Schiaparelli -pour le sport in cui vengono prodotti capi sportivi d’alta moda e costumi da bagno.

In principio quello che noi oggi chiamiamo rosa shocking era identificato come rosa Schiaparelli. Una tonalità di rosa con un rosso carminio ad esaltare il tono del bianco

Creato da Elsa per l’uscita del suo profumo Shocking de Schiaparelli, avvenuta nel 1937. Il colore è definito «luminoso, impossibile, sfacciato, inappropriato, vivificante, come tutta la luce e gli uccelli e i pesci del mondo messi insieme, un colore della Cina e del Perù ma non dell’Occidente»

Gli abiti  di Elsa sono spesso legati a doppio filo con le suggestioni provenienti dal mondo della pittura, della scultura e dell’avanguardia culturale che caratterizza Parigi negli anni ’30.

Le creazioni più famose sono nate dall’interesse di Elsa Schiaparelli per il Surrealismo e i suoi esponenti, che frequenta e con cui collabora.

Su tutti va ricordato il sodalizio professionale tra Elsa e Salvador Dalì, il quale confluisce nella storica collezione A/I 1937-1938: le creazioni sono vere opere artistiche

Tra gli abiti che Elsa realizza insieme a Dalì c’è il celebre Lobster dress, l’abito aragosta indossato da Wallis Simpson, che si rifà a un altrettanto famosa idea dell’artista e la giacca da circo con bottoni in ceramica a forma di acrobati.

Non solo abiti: Elsa Schiaparelli per il profumo Roy Soleil chiama ancora a rapporto l’estro di Dalì, che ne progetta il flacone.

L’abito a cassetti è un chiaro riferimento all’opera surrealista di Dalì “Venere di Milo”del 1936. E’ un tailleur nero con tasche, appunto, a cassetto. Celebrazione della bellezza e dei misteri nascosti della figura femminile.

L’abito a scheletro è il pezzo forte della sua collezione del 1938. Il vestito è un lungo tubino nero realizzato in crêpe di cotone, dove uno scheletro idealizzato è scolpito sulla stoffa del busto e sulla gonna. Il disegno fu fatto proprio da Salvator Dalì: nella sua bozza le ossa delle gambe sarebbero dovute essere unite al bacino per mezzo di nodi a catena tipici dei gioielli.

Tra gli accessori della collezione autunno inverno 1937/1938 il più originale c’è di sicuro il cappello a forma di scarpa Elsa si era ispirata ad una sciarpa di Gala, la moglie di Dalì e sua grande amica.

Elsa Schiaparelli e il cappello a forma di scarpa sono citati nei manuali di arte, oltre che in quelli di moda. Un’intuizione semplicemente geniale che è anche il sunto della brillante ironia di Elsa e dello spirito visionario di Dalì.

La Maison Schiaparelli nata nel 1928 è oggi ancora attiva.

Elsa Schiaparelli ha lasciato al mondo della moda creazioni molto originali ,innovative, anticonformiste, fantasiose, uniche nel loro genere che possono essere considerate tranquillamente prove d’artista.

Nello stesso tempo ha avviato contatti commerciali con l’industria manifatturiera pur disegnando capi avanguardistici, anticipando così gli stilisti moderni, che all’aspetto artistico uniscono anche quello commerciale.

E oggi succede a Milano :

Abito “testa di mucca” stile Schiaparelli sfila a Milano per promuovere alternative alla pelle – greenMe

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La buona notizia del venerdì: Al Niguarda di Milano è carnevale anche per i neonati del reparto TIN

Una ranocchietta tutta verde che riposa beata, una tartarughina accoccolata, una margherita bianca e gialla che aspetta di essere colta, un Pinocchio con un papillon blu, una salopette rossa, una maglietta gialla. Un gufetto riposa sulla spalla dell’infermiera che lo coccola. Una coccinella, tutta rossa e nera, stringe i pugnetti sotto la copertina. Un girasole giallo giallo dorme della grossa.

Succede nel reparto di Terapia intensiva neonatale (Tin) dell’ospedale Niguarda. Qui anche i «bebè piuma» si sono «mascherati» in occasione del martedì di Carnevale.

I costumini sono stati realizzati a mano dalle volontarie dell’Associazione Cuore di Maglia.

E questo succede ogni anno a Carnevale (ma non solo) si trasformano in stiliste d’eccezione.

E così, malgrado le difficoltà che devono affrontare questi piccoli pazienti, le preoccupazioni dei loro genitori, le limitazioni del Covid, non è mancato il tradizionale appuntamento colorato, anche grazie all’aiuto dell’associazione Neo-Amici della Neonatologia del Niguarda.

Nella Tin vengono ricoverati i nati prematuri, che qui ricevono le prime cure. Si tratta di un reparto di terapia intensiva a tutti gli effetti, ma a misura di bebè. Insieme ai piccoli, anche le mamme rimangono in ospedale per tutto il tempo necessario.

Il Niguarda è un punto di riferimento in Lombardia in questo campo e ogni anno accoglie circa 350 prematuri, quasi uno al giorno.

La sopravvivenza supera il 90 per cento, e l’impegno di medici, infermieri e specialisti del reparto non è venuto mai meno durante l’emergenza coronavirus.

L’Associazione Cuore di Maglia ha alle spalle una storia tenera e potente costruita giorno dopo giorno dai volontari sparsi in tutta Italia che realizzano a maglia morbidi cappellini, scarpine, dudù e copertine, per avvolgere, scaldare e colorare i piccini ricoverati in più di 90 reparti italiani di Terapia Intensiva Neonatale.

Siamo vicini a bambini e genitori. Comprendiamo le problematiche delle TIN, e ci sentiamo parte della vita che lì scorre lenta, con emozioni intense che non risparmiano nessuno.

Lavoriamo per sostenere e favorire la CARE, il protocollo di cura e accudimento che contribuisce allo sviluppo dei piccoli e facilita le relazioni genitoriali nell’ambiente alieno della terapia intensiva.

La nostra storia viaggia di città in città, i nostri fili colorati uniscono persone e cuori di ogni età legati dalla passione per il lavoro a maglia e dalla generosità”

Cuore di Maglia veste i bambini delle Terapie Intensive di tanti ospedali italiani, ma anche in molti paesi africani, indiani, greci e tailandesi

„Se c’è per l’umanità una speranza di salvezza e di aiuto, questo aiuto non potrà venire che dal bambino, perché in lui si costruisce l’uomo.“ Maria Montessori

Fonti:

Associazione Cuore di Maglia – I volontari dell’associazione Cuore di Maglia sparsi in tutta Italia, realizzano capi a maglia per scaldare e coccolare i bambini ricoverati in più di 90 reparti italiani di Terapia Intensiva Neonatale.

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Perchè siam donne: Quando le donne non erano autorizzate a lavorare in giardino

Jane Webb Loudon era nata nel 1807 a Birmingham in una famiglia benestante.

Perse entrambi i genitori nell’adolescenza e aveva vent’anni quando pubblicò “La Mummia”, il primo dei suoi racconti di fantascienza, probabilmente ispirato a “Frankenstein” di Mary Shelley, del 1818.

In esso, Jane ha descritto la resurrezione della mummia del faraone Cheope nel 22° secolo. Il faraone risorto viaggia in mongolfiera dall’Egitto all’Inghilterra e interferisce negli affari politici del paese. Oltre ai progressi sociali, anche le nuove scoperte tecnologiche facilitano la vita nel romanzo. Per esempio, le lettere sono consegnate da palle di cannone e in agricoltura, un aratro a vapore facilita il lavoro.

Il libro, ambientato nel XXII secolo, fu molto apprezzato da John Loudon, botanico esperto di giardinaggio, che lo recensì sul “Gardener’s Magazine”.

Quando i due si incontrarono, lui si meravigliò che fosse stata una donna a scrivere quel libro, si innamorarono, dopo pochi mesi si sposarono e ebbero una figlia. Jane scoprì allora nuovi interessi: aiutava il marito nei lavori in giardino e collaborava con lui alla stesura dei suoi libri. La botanica era per lei una materia sconosciuta, ma vi si applicò con passione e imparò i fondamentali molto velocemente.

Assistendo il marito nella realizzazione dell’ “Enciclopedia del Giardinaggio”, si rese conto che la maggior parte dei libri sull’argomento all’epoca, con i loro molti termini tecnici, erano difficilmente comprensibili ai profani, e quindi a quel tempo soprattutto alle donne. Decise allora di scrivere libri di botanica di taglio divulgativo, con un linguaggio accessibile a tutti.

Dopo “Gardening for Ladies and Companion to the Flower Garden” (1840), il suo “Botany for Ladies” (1842) ebbe un grande successo e vendette oltre 200mila copie. È a questa pubblicazione che in quegli stessi anni iniziò per la prima volta a diffondersi la passione per il giardinaggio tra le donne dell’alta società.

Seguirono altri libri, tutte opere standard di giardinaggio vittoriano.

I libri di Jane hanno ispirato le donne di tutto il paese, e il giardinaggio è diventato un hobby importante. Oltre ad acquisire le conoscenze tecniche, Jane si era formata come autodidatta come pittrice di piante e illustrava lei stessa i suoi libri . I suoi disegni di bouquet di fiori erano spesso copiati e adornavano vassoi, tavoli e paralumi.

John Loudon morì nel 1843 lasciando moglie e figlia in ristrettezze economiche. Jane poteva contare solo sul suo lavoro. Nel 1849 diresse la rivista “The Ladies’ Companion at Home and Abroad” e continuò a pubblicare altri saggi di botanica sempre illustrati da lei stessa.

I suoi lavori hanno insegnato alle donne come creare giardini armoniosi, ad occuparsi personalmente della scelta delle piante e della loro salute, in un periodo in cui questa attività non era loro autorizzata.

E non solo ad occupare il loro tempo in modo creativo ma a realizzarsi in un ambito riservato solo agli uomini.

Morì nel 1858, poco prima di compiere 52 anni. I suoi libri hanno reso il giardinaggio un hobby alla portata di tutti e tutte le inglesi e non solo.

Le opere di Jane Webb Loudon con le loro illustrazioni botaniche sono ancora oggi molto apprezzate. La National Art Library di Londra ospita molte delle sue opere.

 © Meisterdrucke

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Perchè siam donne: le maestre vetraie di Murano oltre il pregiudizio comune che il mestiere del vetraio non sia adatto alle donne

Chiara Lee Taiarol e Mariana Oliboni, hanno fondato una fornace sradicando un pregiudizio comune: che il mestiere del vetraio non sia adatto alle donne. Succede a Murano! Una delle isole più affascinanti di Venezia !

A MuranoEl Cocal Glass Studio – il nome si ispira alla figura del gabbiano, detto appunto Cocàl in veneto – è un luogo d’arte e di coraggio, una fornace fondata da due amiche, Chiara Lee Taiarol e Mariana Oliboni, che in pieno lockdown hanno deciso di concretizzare un sogno.

A unirle è la passione per il vetro e la volontà di imprimere un nuovo corso all’arte vetraria muranese, risollevandola da una crisi profonda che ha portato, negli ultimi anni, alla chiusura di moltissime fornaci. “Amo il vetro da quando, a sei anni, visitai Murano. Ricordo che dissi a mia mamma: ‘questo è il lavoro più bello del mondo, se diventasse il mio giuro che non mi lamenterei mai!’. Ma il vero incontro con il vetro l’ho avuto a 22 anni, quando iniziai a lavorare in una vetreria in Australia. Ho viaggiato poi negli Stati Uniti, a Seattle, per apprendere tecniche e accumulare esperienza, e quando sono rientrata in Italia non è stato semplice trovare lavoro, anche a causa dei pregiudizi sulle donne in questo settore. La pandemia ha poi complicato ulteriormente le cose, quindi mi sono decisa a dare il via a questo progetto”, racconta Chiara.


Insieme a lei c’è Mariana, musicista. È sua l’idea di unire vetro e musica realizzando strumenti musicali che mescolano la tradizione secolare di un territorio ricco di storia con la modernità della musica elettronica. “La figura della donna in questo campo è vista in modo particolare: a Murano è molto difficile, per le donne, entrare nella realtà della fornace, che è vista come un luogo maschile, dove si usa la forza. Noi però crediamo fermamente che niente possa impedire ad una donna di seguire la propria vocazione e riteniamo che passione e dedizione siano sufficienti a realizzare qualsiasi tipo di progetto”, spiega. “È un lavoro non semplice, presuppone una grande tolleranza al calore e anche una grande motivazione. Spesso non viene tollerata l’idea di una donna che lavora in fornace. Per noi, però, più che la forza fisica sono importanti le idee”, prosegue Chiara.


Dal cortocircuito tra le passioni di Chiara e Mariana nascono oggetti di uso comune, come vasi e bicchieri, ma anche sculture, installazioni luminose e opere che “portano un po’ di divinità nelle nostre vite” come le “Veneri Preistoriche”, una serie di statuette dalle forme sinuose che rievocano la bellezza delle antiche divinità madri.

Qui, l’importante è seguire una ricerca libera e fluida. “Il vetro è una materia viva, spiega Chiara, “e nel lavorarlo ci mettiamo un pezzo del nostro cuore. Ci piacerebbe condividere questa passione con tante giovani donne e non solo”. Oggi, insieme a Chiara e Mariana, lavora anche una giovane stagista. “Bisogna credere in quello che si fa, nella propria passione. Non importa dove si arriverà, quello che conta è il percorso”.

A Murano, una fornace di sole donne fa rinascere l’arte vetraria muranese – The Wom

La lavorazione del vetro di Murano ha il suo pregio e la sua fama nella ricercatezza e nella rarità che sono caratteristiche del procedimento stesso. Per questo motivo non può essere realizzata da semplici artigiani, ma da veri e propri maestri del settore, con una lunga tradizione alle spalle

Una lavorazione che richiede delle tecniche particolari con molti passaggi e molto complesse.

La tecnica della soffiatura è probabilmente quella che ci è più famigliare in quanto è utilizzata per produrre gran parte delle opere di Murano.

Da secoli i maestri vetrai veneziani proteggono e tramandano l’arte della lavorazione del vetro che risale addirittura alle tecniche di lavorazione del vetro di epoca romana e bizantina. Sarà poi tra il 1400 e il 1800 che l’arte di trattare il vetro tipica di Murano si svilupperà e prenderà la forma che oggi conosciamo e apprezziamo.